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Scienza ed Etica

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La diatriba secolare tra Scienza ed Etica ha trovato nell’ultimo secolo un quanto mai pregnante terreno fertile a causa dell’interessamento dell’intero tessuto civile e industriale durante il corso delle due guerre mondiali e dell’introduzione delle armi di distruzione di massa che hanno segnato la memoria collettiva per sempre, formando dei buchi neri con i quali nella bildung individuale è impossibile non confrontarsi, accusando il florilegio gnoseologico di un pericoloso scientismo. Se infatti l’impiego dell’atomica – e specificatamente lo sgancio di Little Boy su Hiroshima – insieme alla successiva corsa agli armamenti durante la guerra fredda ha innestato nelle vite un sincero e terribile timore referenziale nei confronti di quel Orologio dell’Apocalisse il cui decorso appariva inesorabile, la nascita della fisica subatomica non era sicuramente funzionale a tale scopo, come dimostrato di fatti dal pacifismo tanto propugnato da Albert Einstein, innegabile dopo la stesura del “Manifesto degli Europei” del 1914 – per quanto possa turbare l’iniziale posizione favorevole dello stesso in età roosveltiana allo sviluppo della bomba H, poi ritrattata. Di fatti, nella conferenza organizzata dalla “Società Italiana per il progresso delle scienze “ del 4 ottobre 1950, il padre della relatività fa riferimento a come sia in pericolo la figura dello scienziato in quanto destinato a “un tragico destino” a causa di un “potere politico” da cui è coattamente  “costretto , come un soldato , a sacrificare la propria vita , e ciò che è peggio a distruggere quella degli altri , anche se è convinto dell’assurdità di un tale sacrificio”. Non risulta quindi la scienza ad essere dannosa, quanto più l’utilizzo della tecnologia che segue quella dialettica illuministica di cui Adorno ed Horkheimer hanno sapiente tratteggiato i contorni e che viene strumentalizzata in un’ottica di dominio in cui vige la sempiterna formula baconiana del “Sapere è Potere” e che ha le sembianza di quella plautina di “Homo Homini lupus”. Ma allora qual è la soluzione a tale alterco? Ritornare idealmente allo stadio del “buon selvaggio” di Rousseau? Oppure avere una fede in un futuro in cui regnerà uno “stadio positivo” comtiano?

Cercando di andare a ritroso al fine d’individuare l’eziologia di una così profonda frattura, si può notare come in realtà già dagli albori della storia umana vi sia stata una sovrapposizione di Conoscenza e Morale, partendo dal biblico Logos divino, passando per quel archè eracliteo, sfociando nell’Essere parmenideo: da sempre è stata l’ignoranza, l’errare in una grotta di pregiudizi e paure ad aver frenato l’uomo verso l’altro, unica porta di accesso alla consapevolezza della propria identità secondo un meccanismo dialettico di Aufhebung, per cui il male è solo ignoranza del bene – Socrate docet. Per quanto si può essere titubanti su questo punto, è certo che nulla come il diretto contatto, il conoscere, possa essere la chiave di svolta per una vita realmente etica. A quelle catene che i filosofi della scuola di Francoforte hanno messo indosso a Ulisse si dovrebbero sostituire le ali della volontà di potenza con cui il “distruttore di rocche” ha compiuto il folle per seguire la propria semenza e giungere a virtude e canoscenza. Come di fatti Fromm sottolinea, con il sapere “si penetra sotto la superficie” per “vedere la realtà senza paludamenti” a patto che questo non sia mero nozionismo ma motore di spirito, substrato culturale interiorizzato e non mnemonicamente mantenuto, simile a quel sinolo mazziniano di pensiero ed azione, in cui l’uno è imprescindibile dall’altro. Ma se già Platone attraverso il proprio mito di Thamus e Theuth aveva galvanizzato l’imprescindibile compito del singolo ad apprendere in un’ottica squisitamente attiva – come d’altronde l’etimologia suggerisce essendo questa legata al concetto dell’“afferrare” – sono gli psicologhi Craik e Lockhart ha dimostrare come sia il grado di elaborazione ad essere sinonimo del mantenimento del sapere.

In sintesi, il vero pericolo non è tanto la (NB: in realtà non so se sia maschile o femminile) gnosis ma più la téchne, non nomen ipsum, ma solo per l’utilizzo che se ne fa. Non esiste aprioristicamente il bene e il male, non in un mondo come il nostro che nulla ha a che fare con disegni manichei ma che ha il proprio punto di forza nello sforzo verso una continua integrazione – mutilata e spesso dolorosa – in cui il sapere è forse uno dei pochi spunti di comunicazione continua. In un mondo liquido ed alienato in cui la vita è iperconnessa e d’apparenza, bisogna domandarsi, citando Galimberti, “non cosa possiamo fare noi con gli strumenti tecnici che abbiamo ideato, ma che cosa la tecnica può fare di noi”. Appare doveroso inoltre considerare come molti dei saperi relativi all’anatomia e al corpo umano in toto attraverso i quali è stato possibile una miglioria del tenore di vita, sono dovuti a medici rinascimento e non  che, contro la legge e il senso comune coevo, disseppellivano e sezionavamo cadaveri per scoprire i meccanismi sottesi all’unità biologica uomo – primo fra tutti Da Vinci, colui per il quale chi “s’innamoran di pratica sanza scienzia son come ‘l nocchier ch’entra in navilio senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada”. Eppure appare forzato sostenere che un Übermensch di cotanta elevatura intellettuale possa essere amorale. Probabilmente, come Dawkins ha segnalato ne “Il gene egoista”, l’uomo applica un “egoismo tra i gruppi” in cui solo chi appartiene al proprio “branco” detiene una serie di diritti non per il valore intrinseco ma più per l’applicazione dello stesso. Sebbene possa sembrare che un tale atteggiamento scardinando un certo dogmatismo in cui fluttua l’intero sistema di valori moderni possa far tornare nell’antica applicazione relativista dei “ragionamenti doppi”, in realtà si sta solo cercando di non assolutizzare niente, ma rimanere, usando le parole di Nietzsche, “fedeli alla terra” e in linea con il proprio essere animali prima di tutto. Come ha sottolineato Freud, ogni cambio di paradigma serba in sé anche una detronizzazione dell’uomo in cui lo stesso osserva la propria vera natura. Si auspica quindi che la scienza e la morale riescano a proseguire il proprio iter insieme, mettendosi in gioco di volta in volta secondo una logica falsificazionista per adempiere il proprio ruolo che altro non può essere che il benessere pansoggettivo. Riecheggiano ancora le parole dell’orologiaio di Königsberg, investigatore degli universali con cui si conosce l’ontologico: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto piú spesso e piú a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me”.

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