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Evoluzione del modello atomico

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Il primo a pensare che la materia non fosse continua e compatta, come era stata da sempre concepita, fu Democrito. Egli affermò che tutti i corpi sono costituiti da particelle tanto piccole da essere invisibili,infinitamente dure, non ulteriormente divisibili, immutabili, eterne: gli atomi. “Atomo” in greco significa appunto indivisibile. Democrito affermava che gli atomi si trovano immersi nel vuoto assoluto, in continuo movimento verticale e che si uniscono casualmente grazie ad una forza da lui chiamata Clinamen. L’atomo di Democrito tornò alla ribalta all’inizio dell’800, al nascere della chimica moderna. Secondo l’intuizione del chimico e fisico inglese John Dalton, il concetto di atomo, inteso come particella ultima della materia, era l’unico in grado di spiegare le leggi ponderali fondamentali della chimica. A partire da Dalton i chimici pensarono che esistono un numero limitato di tipi diversi di atomi, a ciascuno dei quali corrisponde un elemento chimico diverso (per esempio ci sono atomi di idrogeno, di ossigeno, di carbonio ecc.). Grande merito di Dalton non fu solo quello di aver risuscitato gli atomi di Democrito, ma per la prima volta nella storia dell’atomo cominciò a determinarne le proprietà e a misurarne le caratteristiche. Verso la fine del secolo W. Crookes scoprì l’esistenza di raggi fluorescenti che si sviluppavano nei tubi catodici, tali raggi furono chiamati appunto catodici e se ne definirono le caratteristiche. Si trattava di particelle aventi carica negativa ed erano presenti in tutti gli atomi, poiché si sviluppavano con qualunque tipo di gas venisse inserito nel tubo. In seguito J. J. Thomson denominò queste particelle elettroni (e) e abbozzò nel 1904 il primo modello atomico (a “panettone”) , concependo l’atomo come una sferetta omogenea carica di elettricità positiva in cui sono immersi gli elettroni negativi in numero tale da rendere l’atomo nel suo complesso elettricamente neutro. Thomson aveva pienamente ragione di pensare l’elettrone così piccolo rispetto alla massa complessiva dell’atomo: egli stesso aveva infatti misurato la massa dell’elettrone e aveva trovato che ammontava a una frazione quasi insignificante della massa dell’atomo più leggero: la massa dell’elettrone è infatti 1/1840 della massa dell’atomo di idrogeno. Successivamente Eugen Goldstein, utilizzando un’apparecchiatura simile a quella usata da Thomson, con il catodo formato da una piastra metallica forata, osservò per primo la presenza di raggi anodici, che si spostavano cioè dall’anodo (positivo) al catodo (negativo). La particella elementare così definita fu chiamata protone (p) e si dimostrò avere carica esattamente uguale e contraria a quella dell’elettrone, ma ben 1836 volte superiore. Da queste esperienze si chiarì definitivamente che l’atomo non è divisibile ma contiene particelle più piccole, cariche elettricamente, in numero uguale Il modello di Thomson dovette essere dopo pochi anni abbandonato, perché in evidente contrasto con i risultati ottenuti da una determinante esperienza compiuta da E. Rutherford. Il fisico neozelandese usò le particelle alfa emesse da atomi di elio privi di elettroni prodotte da materiali radioattivi per bombardare una sottile lamina d’oro, posta davanti ad uno schermo circolare.
Osservando i punti di contatto delle particelle dopo l’attraversamento della lamina, notò che la maggior parte di esse le attraversava indisturbata, mentre una piccola parte deviava leggermente e qualcuna veniva addirittura respinta. Ciò significava evidentemente che la materia fosse per la maggior parte “soffice”, con all’ interno dei punti solidi, duri; le particelle alfa, quindi, venivano deviate o respinte solo quando incontravano le zone dure.
Poiché le particelle alfa sono cariche positivamente, Rutherford dedusse che queste zone più dure fossero anch’esse cariche positivamente, provocando la repulsione delle stesse particelle. Sulla base di questi esperimenti, Rutherford propose il suo modello nucleare dell’ atomo, ovviamente dinamico e non statico come quello di Thomson, poiché gli elettroni negativi non possono essere concepiti che in continua rotazione intorno al nucleo positivo, come i pianeti intorno al sole, visto che in assenza di moto si precipiterebbero su di esso per attrazione elettrostatica. Questo spiega perché i raggi alfa deviano quando sul loro cammino incontravano il nucleo dotato di massa analoga e carica elettrica positiva. Dagli esperimenti di Rutherford si misurò approssimativamente le dimensioni del nucleo atomico (nell’ordine di 10-12 cm), si calcolò inoltre la carica positiva dei nuclei degli atomi bersaglio delle particelle alfa che risultò corrispondere al numero atomico dell’elemento considerato, ossia al numero d’ordine che lo individua nella classificazione periodica di Mendeleev. Si capì inoltre che il nucleo non può essere formato solo da protoni, perché se così fosse la carica nucleare dovrebbe risultare circa uguale alla massa dell’ atomo (visto che la massa degli elettroni si può considerare trascurabile).
Da questa considerazione si dedusse che il nucleo dovesse contenere altre particelle, scoperte solo nel 1932 da J. Chadwick e denominate neutroni.
Ad introdurre un modello più avanzato di atomo fu nel 1913 lo scienziato danese Niels Bohr, il quale, pur mantenendo la concezione planetaria, basò il suo modello sulla quantizzazione dell’energia (Teoria dei quanti). Egli infatti sfruttando questa teoria spiegò gli spettri a righe di emissione degli atomi, ipotizzando che gli elettroni nell’atomo occupano determinate posizioni, alle quali sono associate quantità precise di energia. In sostanza il modello di atomo secondo Bohr ammette che un elettrone ruota attorno al nucleo descrivendo un’orbita ben definita, alla quale compete una quantità di energia ben precisa: all’orbita più vicina al nucleo viene assegnato il livello minimo di energia e quando un elettrone occupa tale livello, si dice che si trova nel suo stato fondamentale.

Gabriele Gallo

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