Home Ambasciatori 2022 Pensiero Scientifico e Letterario “La luce in Poesia, Astronomia e Pittura”

“La luce in Poesia, Astronomia e Pittura”

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“E quindi uscimmo a riveder le stelle”. Questa è l’ultima frase scritta da Dante Alighieri alla fine del XXXIV canto dell’Inferno. Si tratta di un finale rassicurante e che fa ben sperare visto il dolore e la sofferenza provati durante l’esplorazione dell’Inferno. Il viaggio ultraterreno di Dante è un percorso ascendente, infatti dalle tenebre si arriva alla Luce più luminosa di tutte, ovvero Dio. Nella letteratura dantesca solamente due elementi umani sono adeguati alla rappresentazione del Regno di Dio, l’armonia e la luce, con i quali Dante inizia il suo viaggio di redenzione verso il Sommo. La luce è il solo tema conduttore concreto che rimanga a Dante, il solo che impedisca alla cantica di dissolversi in una continua discussione teologica.

All’interno della Divina Commedia (Paradiso), la virtù divina, l’Empireo, i cieli inferiori e la terra si compenetrano, pertanto si manifesta una discesa di luce. L’Empireo è il punto centrale del Paradiso e da questo piove sui vari cieli una virtù, che in modi diversi si lega ai singoli cieli, a seconda della loro natura e del grado di beatitudine di cui godono. Un altro concetto ricorrente nella Divina commedia è quello dell’ombra.

L’ombra è opposta alla luce ed è presente principalmente nell’Inferno. “Ombre” è il modo in cui Dante chiama le anime che si affliggono nell’Inferno, quelle che purificano se stesse nel Purgatorio e quelle che troviamo nei primi cieli del Paradiso. Nell’aldilà le anime che trascinano con se stesse i propri peccati rimangono scure e materiali, mentre gli “spiriti beati” sono quelli che brillano della luce del Paradiso eterno. Per capire meglio il rapporto tra “ombra” e “luce” in Dante, è necessario fare riferimento al Convivio, più esattamente al commento scritto per la sua poesia “voi che‘ntendendo il terzo ciel movete”.

In questo commento Dante sostiene che la nostra anima è un misto di ombra e di luce, e nella vita terrena noi abbiamo il compito di liberarci di questa ombra, per diventare beati per l’eternità. Un tema collegato alla “luce” è quello riferito alle “stelle”. A chi non è mai capitato di restare ammaliato dalla bellezza di un cielo stellato e di ipotizzare quanta distanza ci sia tra una galassia ed un’altra? Un contributo considerevole nello studio delle stelle si deve senz’altro a Margherita Hack, astrofisica italiana, la quale scrisse la propria tesi di laurea sulle Cefeidi, stelle che diventano periodicamente più o meno brillanti e prendono il nome da δ Cephei, la prima variabile di questo tipo osservata nella nostra galassia.

“Sono caratterizzate dall’estrema regolarità delle loro variazioni luminose e la loro grande importanza consiste nel fatto che c’è una stretta relazione tra il periodo di variabilità e il loro splendore intrinseco”. Grazie alle sue osservazioni e a quelle di Henrietta Leavitt le stelle di questo tipo sono considerate punti di riferimento fondamentali per misurare la distanza delle galassie alle quali appartengono.

Durante la sua carriera Margherita Hack orientò la sua attenzione anche verso le stelle a emissione Be, alcune delle quali sono a loro volta delle Cefeidi. Ruotano rapidamente e, per questo, emettono grandi quantità di materiale a forma talvolta di anelli o inviluppi stellari. Emettono idrogeno in modo significativo e hanno un eccesso di radiazione infrarossa.

Oggi sappiamo che queste due peculiarità dipendono dai dischi di materia che circondano tali stelle e ne assorbono la radiazione ultravioletta. Come era solita spiegare la Hack nelle sue conferenze divulgative, il cielo può essere osservato in modi diversi, dalla luce visibile ai raggi X.

Guardarlo ai raggi ultravioletti significa poter osservare fenomeni altrimenti invisibili, i cui protagonisti sono oggetti molto caldi, come le stelle nascenti o quelle che stanno per morire. Dalla luce derivano anche i colori, il mezzo migliore, a mio parere, per esternare il nostro mondo interiore.

Un poeta che ama “dipingere”i suoi stati d’animo attraverso i colori è Eugenio Montale. Egli utilizza questa proprietà dei colori per riflettere su se stesso nella realtà che lo circonda, su ogni attimo della sua esistenza e per fare un discorso universale contemporaneamente.

Nelle sue poesie inizialmente l’io poetico è sommerso dalla noia della monotonia e vive giorno per giorno aspettando un’epifania che gli faccia avere una visione colorata delle cose, quell’occasione che faccia scomparire tutto il grigiore che lo assale. Quel qualcosa di inaspettato che arriva e fa risaltare il colore su uno sfondo nero, proprio quando il mal di vivere incombe, è l’emblema di tutta la poesia montaliana.

“Quando un giorno da un malchiuso portone/ tra gli alberi di una corte/ ci si mostrano i gialli dei limoni;/ e il gelo del cuore si sfa,/ e in petto ci scrosciano/ le loro canzoni/ le trombe d’oro della solarità.” (“limoni” dalla raccolta “Ossi di seppia”).

L’ultimo campo artistico dove riaffiora il tema della luce è certamente la pittura. Non posso non citare Caravaggio come uno tra i migliori che si avvalsero di questo strumento preziosissimo.

Analizzando il dipinto “Vocazione di San Matteo” possiamo comprendere, ad esempio, come la luce sia il corrispettivo della chiamata di Cristo. Egli, infatti, indica solo Matteo come suo futuro seguace, l’unico investito dalla luce divina, mentre gli altri si trovano in una zona d’ombra.

FEDERICA MARINO 5°CL LICEO “SESTO PROPERZIO” ASSISI(PG).

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