Gentile Prof Spinsanti, letto e riflettuto sul libro “Camici e Pigiami” è stato per me inevitabile domandarmi se tutt’ora tale distacco medico-paziente fosse altrettanto presente. Nel libro oltre a mettere in luce l’aspetto precedentemente indicato, si fa riferimento anche ad altri aspetti, alcuni a mio parere meno rilevanti come il fatto che in ospedale si mangi male o che si è privati della propria privacy, ed altri più importanti come ad esempio affermare che i medici sono poco preparati, male educati ed abituati addossando la colpa alle università.
Il mio parere al problema esposto inizialmente, riportato alla realtà contemporanea, è che oggi il paziente non viene più visto come essere umano integro, ma essendosi la medicina specializzata negli anni in diversi settori del corpo , viene considerato solamente come settore da andare a curare quindi “stomaco” “polmoni” “cervello” e via dicendo, andando ad aumentare il distacco che vi è tra il medico e il paziente. Perciò la mia domanda è come si può migliorare questo rapporto che ormai ha portato il medico a considerare il paziente come un “pezzo di carne”?
Letizia Castellani
RISPOSTA:
Il libro da cui prende avvio la riflessione di Letizia è vecchio di quasi 20 anni (è stato pubblicato nel 1999). Era una delle prime denunce che il rapporto tra i professionisti della cura e le persone malate stava prendendo una brutta strada. Medici e malati – gli uni vestiti di camici, gli altri di pigiami – cominciavano a perdere quel legame che tradizionalmente li teneva uniti. Ai toni allarmati dell’Autore l’editore ha aggiunto del suo, mettendo in copertina due immagini contrapposte: quella di un lupo (con il camice!) che fronteggia un agnello (ovviamente con il pigiama…). E’ in tale direzione che si sono sviluppati i rapporti, negli anni decorsi da quella denuncia? I fatti di cronaca di questi giorni evocano uno scenario diverso. Ci parlano di medici aggrediti fisicamente, di accuse ripetute di “malasanità”, di crescita esponenziale di denunce ai professionisti e di richieste di risarcimenti economici per veri o presunti danni subiti. Talvolta abbiamo l’impressione che i ruoli di lupi e agnelli si siano invertiti: chi sono i lupi, chi gli agnelli, ai nostri giorni? Ma forse è necessario sottrarsi alla seduzione di interpretare il malessere esistente nell’ambito della sanità in termini moralistici, come uno scontro tra buoni e cattivi. La radice profonda del malessere è legata al fatto che le pratiche mediche sono necessariamente riduzionistiche. Noi vogliamo essere curati come persone, ma la medicina si occupa dei nostri organi malati. E noi pretendiamo che sia così: sempre più specialistica, sempre più concentrata su parti sempre più piccole. La regole del sapere medico è formulata, in inglese, come “to kow more and more about less and less”. E già che siamo in ambito anglofono, aggiungiamo che in inglese ci sono due diverse parole per nominare la malattia: illness e disease. L’illness è la malattia come la vive ogni persona, come malessere fisico e grumo di emozioni, fantasie, aspettative; disease è invece ciò che diagnostica il medico quando gli portiamo la nostra illness e diventa la base del trattamento da cui ci spettiamo la guarigione.
E’ così che procede la medicina.
Può fare altrimenti?
Ecco: questa è la grande scommessa dei medici più innovativi del nostro tempo.
Senza abbandonare il loro riferimento al rigore della scienza e al suo procedimento riduzionistico, lo integrano con un ascolto attento del vissuto del malato. Questa metodologia si è data il nome di Medicina Narrativa. Richiede al professionista una “competenza comunicativa” che non sostituisce ma integra le competenze cliniche. Appare così all’orizzonte, molto promettente, una “medicina vestita di narrazione”.
SANDRO SPINSANTI