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IL REGRESSO ECONOMICO COME VIA PER IL PROGRESSO

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Il professor Domenico De Masi, esperto in sociologia del lavoro, non ha dubbi: il problema della ripartizione della ricchezza mondiale è sempre più evidente. Come ricorda l’illustre accademico, nell’anno appena trascorso è stata registrata una crescita della ricchezza mondiale pari a circa il 4%; di questo 4% però, solo il 20% è arrivato nella mani della popolazione che ha realmente lavorato per ottenerlo, il restante 80% è invece stato destinato ad una piccolissima parte della popolazione mondiale (circa 1200 persone su 7 miliardi e mezzo).

Quando De Masi si sofferma sulla nostra nazione, ecco emergere un altro aspetto eclatante del problema: in Italia all’inizio della crisi (nel 2007), dieci famiglie possedevano, in proporzione, la ricchezza equivalente a quella di 3,5 milioni di italiani; a distanza di un decennio dall’inizio della crisi,  le stesse dieci famiglie possiedono la ricchezza equivalente a quella di 6 milioni di italiani.

La ricchezza dei pochi aumenta sempre più, insieme però alla povertà di molti: è quindi doveroso cercare una soluzione che inverta questa tendenza.

Bisogna in primo luogo riconoscere che anche nel passato si verificavano situazioni simili, seppur con numeri meno elevati. Inoltre l’ottenimento di una società paritaria, dove non esistano né poveri né ricchi, rappresenta chiaramente un’utopia.

Per trovare una parziale soluzione concreta al problema, bisogna quindi ragionare in termini realistici, senza pensare a soluzioni banali e irrealizzabili. Risulta utile quindi cambiare approccio al problema, senza colpevolizzare le classi più agiate e pretendere che esse rinuncino a buona parte dei loro privilegi in favore della restate parte della popolazione.

Il saggio “La decrescita felice” di Maurizio Pallante presenta ad esempio un possibile e condivisibile approccio al problema che si è già rivelato funzionante. La riflessione proposta riguarda la situazione di Cuba degli anni novanta. Dopo la caduta dell’Unione sovietica, che pagava a Cuba lo zucchero a prezzi molto superiori a quelli di mercato, racconta Pallante, l’economia dell’isola è entrata in crisi e la struttura produttiva agroindustriale fondata sulla monocultura della canna da zucchero si è disfatta. Secondo i dati del Fao , nel 1993, a causa della crisi economica, l’assunzione di calorie giornaliere media nell’isola di cuba era scesa da 3000 a 1900, quantità equivalete ad un pasto in meno a giornata. Poi qualcosa è cambiato: al posto delle colture di canna da zucchero sono spuntati migliaia di piccoli orti in cui vengono coltivati frutta e verdura. Vengono organizzate fiere dove si vendono gli animali e sono nate botteghe di redini e finimenti. Il numero dei fabbri è quadruplicato. I due terzi delle terre di proprietà statale sono state ridistribuite a cooperative o singoli agricoltori che possono vendere le eccedenze. Questo sistema ha funzionato così bene che oggi i cubani si sono riappropriati di quel pasto giornaliero che avevano perso. La decrescita economica realizzata con il passaggio dalla produzione di merci alla produzione di beni, dalla canna da zucchero alla frutta e agli ortaggi, mirando alla qualità del prodotto piuttosto che alla quantità, ha accresciuto il benessere dei cubani e migliorato la qualità dell’ambiente in cui vivono. Sono diventati quindi, meno sviluppati ma più ricchi. Questo cambiamento ha sostituito il reddito aleatorio con il quale i cittadini acquistavano ciò che riuscivano a trovare sul mercato, con un reddito reale, basato sull’autoproduzione, che gli permette di produrre ciò che vogliono. Il loro lavoro viene ora realmente ripagato con un reddito reale, fatto da beni, che dipende soltanto dal loro lavoro, e non dalla furbizia e la volontà di sfruttamento da parte delle multinazionali, dalle quali sono ora emancipati.

L’operazione compiuta dai cubani potrebbe apparire come un regresso dal punto di vista economico, ma si tratta sicuramente di un progresso rispetto alle condizioni di vita ed al benessere della popolazione. Questa soluzione trovata dai cubani è infatti una risposta concreata al problema della dipendenza della popolazione meno ambiente, da quella più agiata. Diffondendo questo tipo di approccio all’economia verrebbe spezzato questo legame e si otterrebbe uno svincolo dall’obbligo di sostenere la popolazione più agiata economicamente, nel tentativo di soddisfare i bisogni primari, gestiti appunto dalla stessa con le grandi multinazionali. Ma come potrebbe essere concretizzata questa idea senza ricorrere a cambiamenti drastici, quali quello avvenuto a Cuba?

Una soluzione che aiuterebbe sicuramente ad ottenere in parte l’emancipazione sarebbe quella di preferire i prodotti locali a quelli importati dall’estero. Potrebbe sembrare banale ma un rimo passo sarebbe quello di controllare le etichette e la provenienza di frutta e verdura al supermercato scegliendo, dove possibile, sempre prodotti provenienti dalla propria nazione o ancor meglio locali. Se questo criterio di scelta fosse applicato concretamente dall’intera nazione si noterebbe una notevole agevolazione dell’economia locale ed uno svantaggio all’economia delle grandi multinazionali. Questo nuovo metodo porterebbe sicuramente ad un primo passo verso quello che è l’obbiettivo finale: la redistribuzione delle finanze e l’ inversione di tendenza.

Ovviamente questa soluzione non è da considerarsi come definitiva o risolutiva del problema, in quanto la disparità economico-sociale è un fenomeno antico e difficile da eliminare, ma di certo è un primo passo verso un progresso che porti il benessere di tutta la popolazione mondiale.

Giulia Senette

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