L’ATOMO NEL MONDO GRECO
Già nel 600 a.C. gli antichi Greci erano a conoscenza che, strofinando con della lana un pezzo di ambra, questi riusciva ad attirare a sé piccoli oggetti leggeri come semi, capelli o piume. Essi credevano che questo fenomeno fosse dovuto ad un “fluido” contenuto nell’ambra. Questa “forza” non venne assolutamente relazionata ad una eventuale struttura della material. Intorno al 500 a.C. due filosofi, Leucippo e Democrito, formularono una teoria filosofica sulla struttura del creato. Chiedendosi quante volte la materia si sarebbe potuta dividere a metà, essi arrivarono a chiamare questa particella elementare che avrebbe formato tutta la materia: ‘atomo’, che in greco significa ‘indivisibile’. Per più di 2000 anni, grazie anche al (funesto) influsso delle teorie di Aristotele sulla cultura antica e su quella di tutto il medioevo, nessuno indagò più sulla struttura della materia e l’idea di atomo venne abbandonata.
LA RIPRESA DELL’IDEA DI ATOMO Nel 1800
circa, un chimico inglese, Joho Dalton, basandosi sulle sue ricerche e sulle conclusioni di altri suoi due colleghi: Lavoisier e Proust, elaborò una teoria scientifica che dimostrava come la materia dovesse essere costituita da particelle elementari che si combinavano e si dividevano per formare ogni sostanza dell’universo. In omaggio ai due filosofi greci, Dalton chiamò questa particella: atomo. L’atomo non era più un’idea filosofica, ma una entità materiale reale. Nel 1897, anche il fisico inglese J.J. Thomson condusse un esperimento sulle proprietà elettriche della materia. Inaspettatamente lo scienziato scoprì che la materia era formata da particelle cariche negativamente. Thomson chiamò queste particelle: elettroni. Dedusse anche che se esistevano le cariche negative, dovevano esistere anche quelle positive. Nasceva il primo modello atomico: l’atomo a panettone. Nel 1911 Ernest Rutherford indagò più a fondo sulla struttura atomica: bombardando una sottilissima lastra d’oro con delle particelle alfa si accorse che il modello di Thomson non era corretto: l’atomo era sostanzialmente vuoto, con un nucleo positivo di protoni e una zona esterna in cui orbitavano gli elettroni, un piccolo sistema solare, da cui il nome di ‘modello atomico planetario’. Il modello di Rutherford apparve subito affetto da un errore: le leggi della fisica dicono che, se una particella carica si muove, perde costantemente energia. Dunque gli elettroni avrebbero dovuto cadere nel nucleo in pochi miliardesimi di secondi. Nel 1912, un fisico danese di nome Niels Bohr, applicò una innovativa teoria elaborata da Max Plank, professore di fisica teorica all’università di Berlino nel 1900. Plank spiegò l’emissione di energia delle sostanze ipotizzando che l’energia emessa non fosse graduale, ma fosse emessa ‘a pacchetti’ discreti. Egli chiamò questi ‘pacchetti’ : quanti di energia. Era nata la fisica quantistica. Bohr, quindi, applicò all’atomo questa teoria e concluse : 1. L’elettrone staziona su orbite ad una certa distanza dal nucleo. 2. L’elettrone può ‘saltare’ da una orbita ad un’altra soltanto se riceve il giusto ‘quanto’ di energia. Se non riceve o perde questo ‘quanto’ di energia, esso permane nella sua orbita. Questo modello era in grado di spiegare perfettamente gli spettri a righe degli atomi: quanto un elettrone salta ad una orbita superiore assorbe un quanto di energia che rilascia sotto forma di “fotone” quando ritorna all’orbita di partenza. Purtroppo anche l’atomo di Bohr presentava qualche imperfezione: funzionava bene con gli atomi leggeri, ma non era in grado di spiegare le emissioni di atomi pesanti o sottoposti a forti campi magnetici. Nel 1920, il fisico tedesco Sommerfeld ‘aggiustò il modello di Bohr
introducendo l’idea che le orbite dovessero avere diverse forme e non dovessero essere necessariamente circolari, ma ellittiche. Nel 1924, il fisico francese Louis De Broglie, che aveva studiato il dualismo onda-particella della luce, studiando le conclusioni di Einstein sull’effetto fotoelettrico, avanzò l’ipotesi che anche gli elettroni avrebbero potuto comportarsi allo stesso modo: cioè essere a volte come onde elettromagnetiche e a volte come delle particelle. Nel 1925, il fisico tedesco Werner Heisenberg elaborò una sua teoria considerando l’elettrone come una particella. Costruì un modello matematico utilizzando il calcolo con le matrici. Le conclusioni di queste operazioni matematiche furono le stesse di un allora sconosciuto fisico austriaco: Erwin Schrodinger. Nello stesso anno un altro fisico tedesco, Max Born, perfezionò l’equazione di Schrodinger ‘unendola’ con le conclusioni di Heisemberg: le soluzioni dell’equazione d’onda definivano una zona attorno al nucleo dove la probabilità di trovare l’elettrone era massima: l’orbitale. L’orbitale è, dunque, un luogo dello spazio attorno al nucleo dove si può trovare l’elettrone. Dalle soluzioni risulta, inoltre, che gli orbitali hanno diverse forse e sono posizionati a distanze diverse attorno al nucleo. Le teorie di Rutherford, Bohr, Sommerfel, Schrodinger e Heisenberg finalmente combaciavano in un unico modello atomico. Nel 1927 Heisenberg elaborò la sua più importante conclusione, il principio che da lui prende il nome: il principio di indeterminazione di Heisemberg. Semplicemente il principio dice che quando si va a misurare la posizione o la velocità di un elettrone si commette un errore maggiore del risultato trovato. Quindi non è possibile conoscere allo stesso tempo queste due proprietà. Semplificando ulteriormente: non è possibile conoscere con certezza assoluta dove sia e a che velocità vada l’elettrone intorno al nucleo. Questa conclusione si adattava perfettamente al concetto di orbitale. Finalmente nel 1932 il fisico inglese James Chadwick scopre che la massa mancante del nucleo dipenda dall’esistenza di una terza particella sub-atomica: il neutrone. Con questa scoperta si fa luce anche sulla differenza tra le masse degli stessi elementi: si scoprono gli ‘isotopi’.
Casilli Ryan Davide