Salve Signora Baldereschi,
scorrendo i nomi dei vari relatori che, quest’anno, aderiscono al Festival di Filosofia e Scienza ho letto il suo, la sua specializzazione e il tema da lei trattato, tema che mi ha particolarmente colpito sia per la sua attualità sia perché tratta un ambito che, personalmente, mi affascina particolarmente in quanto oggetto dei miei studi e, quindi, alla base di quello che potrebbe essere il mio futuro universitario.
La scienza ha fatto oggi passi da gigante ed è proprio il settore della ricerca medico-sanitaria quello che ha registrato gli sviluppi più importanti perché, grazie alle nuove scoperte, è possibile curare malattie che, fino a poco tempo fa, risultavano incurabili e, quindi, in molti casi mortali.
Una di queste è, senza alcun dubbio, l’ictus cerebrale, patologia che colpisce una persona su sei e che, ad oggi, risulta curabile solo se si interviene nelle tre ore immediatamente successive alla manifestazione dei primi sintomi. Da qui parte una mia prima domanda che riguarda proprio i tempi in cui l’intervento dei medici è in grado di salvare la vita al paziente; sarà possibile, secondo lei, allungare, in futuro, i tempi in cui l’intervento sia in grado di essere efficace e, in caso di risposta affermativa sa per caso alcuni metodi che potrebbero favorire questo progresso?
L’ictus cerebrale è causato da un’improvvisa chiusura o rottura di un vaso cerebrale e dal conseguente danno alle cellule cerebrali, danno che è dovuto dalla mancanza dell’ossigeno e dei nutrimenti portati dal sangue, si parla in questo caso di ischemia, o alla compressione dovuta al sangue uscito dal vaso, si tratta cioè di un’emorragia cerebrale.
In genere, la sua comparsa, è del tutto improvvisa e priva di dolore ma, quando è presente anche un’emorragia cerebrale i sintomi sono diversi, tra essi vi è mal di testa, senso di debolezza, paralisi o intorpidimento degli arti o del volto causando, in questo caso, difficoltà nel parlare. Sintomi che, inoltre, possono a volte scomparire dopo pochi minuti e che, quindi, sono anche difficili da riconoscere e da associare ad una malattia così grave.
Proprio riguardo a ciò volevo porle, in conclusione, una domanda: è possibile e/o fondamentale educare le persone, in particolare i giovani, a prevenire queste malattie e a renderli consapevoli che, anche quello che sembra un ostacolo insormontabile, può invece essere superato solo se si hanno a propria disposizione le conoscenze adeguate, conoscenze che possono essere acquisite tramite apposite lezioni, convegni, trasmissioni e manifestazioni. Sono già in atto simili attività?
La ringrazio per la sua disponibilità e le chiedo se ha inoltre qualche aggiornamento relativamente alle ricerche fatte in questo ambito.
Alessandro Castellani