Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
In questa poesia, tratta da “Ossi di Seppia”, Eugenio Montale vuole comunicare la visione del “male di vivere”, il dolore che ha incontrato in ogni passo e in ogni elemento della natura, evidente soprattutto nella prima quartina in cui sono presenti parole trapelanti di amarezza e malinconia. Il poeta però, nella seconda quartina, vuole comunicare al lettore che c’è sempre un barlume di speranza nel riuscire a superare l’oscurità e arrivare alla luce.
Il poeta aspetta quel qualcosa di inaspettato che fa risaltare il colore sullo sfondo nero, rappresentato dal “mal di vivere” che incombe. Montale nelle sue poesie concretizza la “teoria dei colori” di cui parlava Goethe, facendo originare il colore dall’incontro della luce con le tenebre.
Infatti è presente nelle sue poesie quell’importante passaggio tenebre-luce, rappresentato inizialmente da un io poetico che vive un momento cupo e tenebroso, portandolo a vedere le cose con oscurità, ma l’occasione sta nell’incominciare a schiarirsi dell’ombra, così che, piano piano, tutto ciò che è gli attorno e che prima era oscurato da quel grigiore che gli offuscava l’animo, si dissolve in un fiume di colori. Dunque Montale, proprio come in un prisma, scompone
la luce bianca che vede come una certezza, in un fascio di colori che traduce in poesia.
Il primo scienziato a parlarci della luce e della sua conseguente teoria è stato Newton, facendo l’esperimento con un prisma di cristallo. Egli usando questo prisma di cristallo aveva scomposto la luce del sole (luce bianca) nel cosiddetto spettro dell’iride, dove i colori sfumavano dal rosso all’arancio, dall’arancio al giallo, poi al
verde e all’azzurro fino all’indaco e al violetto. In questo modo si spiega il “mistero” dell’arcobaleno.
Newton spiegava la formazione dello spettro ammettendo che tutti i
colori erano già presenti nella luce “bianca” del sole prima della sua scomposizione.
E per confermare la sua ipotesi Newton ideò un esperimento inverso al precedente e tale da produrre la “ricomposizione” dei colori. Egli otteneva prima la scomposizione della luce, poi usando una grande lente convergente, faceva convergere tutti i colori in un unico punto.
I colori scomparivano e si otteneva di nuovo un raggio di luce
bianca. Newton giunse quindi alla conclusione che il colore degli oggetti che ci circondano è legato al modo di reagire delle superfici alla luce.
Newton svolse diversi esperimenti tra cui quello del disco. Il “disco di Newton” è un disco composto da sette settori colorati secondo i colori dell’arcobaleno. Facendolo ruotare, il disco
mescola la luce riflessa dai colori diversi, riflettendo una luce biancastra. Si ottiene dunque l’illusione che i colori tendano ad uniformarsi e a diventare bianchi.
La luce, inoltre, fu ripresa in vari ambiti, in particolare nell’arte come possiamo vedere nei dipinti di colui che seppe usare la luce per combinare lo stato fisico ed emotivo dei personaggi dipinti: Caravaggio. Nella pittura di Caravaggio la luce e il buio non
entrano in dissonanza tra di loro, ma si completano esaltandosi l’un l’altro.
L’uso di questo binomio è un’anteprima di quello che sarà usato nella fotografia e nel cinema. Inoltre la luce ha la funzione di evidenziare ciò che è sacro e ciò che è profano, diventando rivelatrice di una realtà piuttosto che di un’immagine stereotipata; è la luce del realismo.
Una delle opere in cui si può ben notare l’importanza del binomio caravaggesco è: ”Ragazzo morso da un ramarro”(1595/1596),in cui la luce entra in campo come un lampo trasversale nel buio che non viene dall’alto, ma da una sorgente al di fuori della scena dipinta. Si tratta ,in questo caso, di un binomio tra luce ed ombra che conferisce teatralità e realismo.
Betti Vanessa
4A Scienze Umane,Liceo Sesto Properzio Assisi