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Questione di codici

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“E coloro che furono visti danzare, vennero giudicati pazzi da quelli che non potevano sentire la musica.” Friedrich Nietzsche.

Il costante tentativo di conferire un significato al mondo, alla realtà circostante, espressione di un bisogno “umano, troppo umano” spesso si scontra con il relativismo, come se questo equivalesse alla “fine dei giochi”, quando in realtà una mente divergente, slegata dal dogmatismo, è paradossalmente l’inizio di tutto.

Nel 1632 Galileo Galilei affermava, in quella che è definita “relatività galileiana”, che il tempo scorreva uguale per tutti  e che la velocità e le distanze si sommavano fra loro. Una visione meccanicistica messa in discussione dall’affermazione nel 1832 della costanza della luce, provata dagli esperimenti effettuati dal fisico James Maxwell. A quello che sembrava un paradosso conferirà poi una soluzione, nel 1905, il fisico Albert Einstein, con la teoria della relatività ristretta. Prendendo in considerazione la costanza della velocità della luce, vi inserisce il concetto di spazio-tempo dimostrando come il tempo rallenti quando si è più prossimi alla velocità della luce. La relatività del tempo, concetto filosofico dibattuto nei secoli, ora trovava fondamento anche nella fisica.

In fondo la realtà che ci circonda, non è altro che la rielaborazione soggettiva operata dalla nostra mente, un insieme di fenomeni che vengono decodificati in base alla struttura cognitiva di ognuno.

“Il mondo non esiste se non nel rapporto tra soggetto e oggetto che caratterizza la rappresentazione.” Schopenhauer.

Per Pitagora l’arché era numero, la realtà poteva essere descritta in base a relazioni matematiche, riducendosi a rapporti tra numeri. Eugenio Montale invece dipingeva con le parole la sua realtà, vedendo nella luce non un’onda elettromagnetica che viaggia a 300.000.000 m/s di velocità, ma comunque una costante, che lo rincuorava e confortava  in ogni momento di dolore ed oscurità. Ciò che però muove questo bisogno di imprimere un controllo sulla realtà, sconfina con la necessità di far convergere in una singola interpretazione, svariate percezioni. Questo è il concetto di normalità.

Ma la normalità, l’abitudine non sono altro che armi a doppio taglio, che con l’intento di proteggerci dal nichilismo, dall’assenza di valori, dal relativismo radicale, rischiano di chiudersi al nuovo, al diverso, al disordine, al dionisiaco, all’anticonformismo, al genio.

Indossare le stesse “lenti colorate”, gli stessi filtri interpretativi, può portare ad una presunzione di onniscienza, che spesso rende ciechi.

Curioso sarebbe rispondere al quesito su cosa sarebbe accaduto se Galileo Galilei avesse interrotto le sue ricerche per il timore di scatenare l’ira o la disapprovazione di individui che avevano loro stessi timore, timore della novità, della diversità, del cambiamento, timore di guardare il mondo da un altro punto di vista, da un cannocchiale.

Guardare oltre fu anche l’azzardo di un medico, Ignàc Semmelweis, il quale indagò sull’elevatissimo indice di mortalità di donne puerpere, dopo che queste venivano operate dai medici dell’ospedale in cui lavorava. Con i suoi studi scoprì che la morte delle donne era dovuta ad infezioni portate dai medici stessi che operavano su dissezioni senza lavarsi le mani una volta conclusa l’attività. I risultati di Semmelweis vennero screditati e quando questi iniziò a dare segni di squilibrio mentale venne rinchiuso in un manicomio, in cui morì.

Una prospettiva della realtà divergente era anche quella del matematico economista John Nash, il quale affetto da schizofrenia, con l’applicazione della matematica alla teoria dei giochi, riuscì comunque a conferire un contributo ad una realtà di cui erano partecipi anche individui non schizofrenici.

Fondamentale è allora citare in quest’ottica il contributo che diede lo psichiatra Franco Basaglia, che decise di vedere il malato non solo dal punto di vista della sua malattia, come qualcuno da nascondere o “aggiustare” ma come un essere umano degno di rispetto. A tale psichiatra è oggi attribuita la legge 108 del 1978, detta legge Basaglia, prima e unica legge che impose la chiusura dei manicomi.

Decidere di guardare il mondo da più punti di vista, decidere di guardare oltre, di “cambiare lenti” non è sinonimo di stupidità, è solo indice del progresso inarrestabile, inevitabile della mente umana. Si danzerà sempre e comunque, sta a noi decidere quando cominciare a sentire la musica.

scritto da Bordoni Carolina, 4ºA Scienze Umane, Liceo Sesto Properzio Assisi

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