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Presentazione del 3° Modulo annuale: “Infinito, Universi, Memoria”, Silvano Tagliagambe

Qual è la relazione che possiamo stabilire tra infinito, universi e memoria? E perché la si è voluta porre al centro di questo terzo modulo annuale? Una prima risposta ce la dà Italo Calvino, il quale in un articolo intitolato Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio) , scrive che “la nostra mente è una scacchiera in cui sono messi in gioco centinaia di miliardi di pezzi – neppure in una vita che durasse quanto l’universo si arriverebbe a giocare tutte le partite possibili” .

Questa sua riflessione è pienamente confermata dai calcoli fatti dalle neuroscienze sulla struttura e l’organizzazione interna del nostro cervello, secondo i quali esso è formato da 86 miliardi di cellule nervose, i neuroni, 17 miliardi dei quali si trovano nella corteccia cerebrale e la restante parte nel cervelletto, che costituisce appena il 10% della massa cerebrale. I neuroni non lavorano mai isolati, ma formano gruppi, le reti o circuiti neuronali. Si stima che ogni neurone possieda in media 1.000 sinapsi che lo collegano mediamente ad altri 10.000 neuroni: ottantaseimila miliardi di connessioni cerebrali per ciascun cervello.

Non solo, ma ciascuna delle sinapsi può trovarsi in media in dieci possibili stati funzionali, per cui il numero dei possibili stati cerebrali si conta a milioni di miliardi (1015): questi numeri ci fanno capire che è tutt’altro che improprio riferirsi all’infinito quando si parla di ciò che si muove all’interno della scatola cranica di ciascuno di noi. Per quanto riguarda la memoria possiamo prendere spunto da alcune preziose osservazioni contenute nell’ultimo libro di Giorgio Vallortigara, che affronta questioni cruciali per la biologia, l’epistemologia e la psicologia. Il problema di fondo è cercare di capire come si formi e si sviluppi la capacità degli organismi di “far presa” sul mondo, fisico e sociale, in cui vivono, costruendo un processo conoscitivo che consenta loro di orientarsi e di muoversi e agire in conformità alla struttura dell’ambiente.

Attraverso una serie di esperimenti, rigorosamente condotti per esplorare i contenuti della mente allo stato nascente di piccoli vertebrati, soprattutto dei pulcini, approfittando del fenomeno dell’imprinting, l’autore si chiede se le risposte dell’empirismo possano essere considerate sufficienti per dare adeguatamente conto dell’origine dell’informazione, della sapienza che gli esseri viventi posseggono come equipaggiamento di base. In particolare, ciò che si propone di stabilire è se la disponibilità di quest’ultimo possa essere spiegata facendo riferimento ai soli dati sensoriali via via acquisiti e alle reazioni affettive, basate sul carattere edonico degli stimoli che giungono sulla superficie dell’organismo, sui suoi confini, che sono piacevoli o spiacevoli, e determinano le appropriate risposte comportamentali automatiche con le quali l’organismo reagisce a essi. La risposta è negativa: “alla fin fine” – si osserva – “il problema con l’empirismo è che, molto semplicemente, ci sono a disposizione fin troppe associazioni possibili nel mondo, e senza un qualche genere di meccanismo istruttivo un organismo si ritroverebbe del tutto smarrito nell’infinita rete di potenziali nessi causali”.

I meccanismi da chiamare in causa per affrontare debitamente la questione delle «guide innate per l’apprendimento» sono quelli che si possono far risalire a una memoria profonda, che ha i tempi lunghi della storia naturale e non quelli brevi dello sviluppo individuale, che sono quindi a priori per l’individuo e a posteriori per la specie di appartenenza, che sono pertanto i risultati di un’esperienza acquisita lungo la scala temporale della storia filogenetica: e gli esperimenti operati e illustrati con esemplare chiarezza ci dicono di che natura siano. Si tratta della predisposizione fin dalla nascita a percepire gli oggetti come entità coese e continue, che si estendono nello spazio e permangono nel tempo; della capacità di distinguere oggetti possibili e impossibili; del principio per cui gli oggetti sensibili occupano lo spazio in modo esclusivo; dell’assunzione che la riflettanza di un oggetto non cambia con l’illuminazione, guida efficace all’apprendimento delle proprietà delle superfici visibili; dell’attitudine generale a cogliere le relazioni di uguaglianza o di differenza quali che siano gli oggetti; della sensibilità alle probabilità, in virtù della quale gli animali riescono nella poderosa impresa di cogliere in maniera spontanea la struttura probabilistica di una sequenza; di un senso innato della geometria, che precede e guida le nostre esperienza di navigazione nell’ambiente, idea che sarebbe piaciuta a Immanuel Kant e che spiega il titolo del saggio di Vallortigara.

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